Finalmente la pausa pranzo.
Eccomi qui, seduta al mio bar di fiducia davanti ad una sfilza di panini invitanti e piatti più o meno commestibili. Non so dire da quanto aspettassi questo momento, forse dal primo momento in cui ho messo piede fuori casa per precipitarmi al lavoro con un ritardo eclatante.
La mattina non mi ha mai messo di buonumore, ho sempre percepito il risveglio come un dovere contrario alla prima essenza dell’essere umano: dormire.
La giornata non è proseguita meglio e al contrario ha perseguito nel suo intento iniziale di stancarmi, tra corse sul tram e telefonate interminabili.
Chi come me non desidera altro che arrivi la pausa pranzo?
Vengo qui ogni giorno ormai da tanti anni, circostanza che mi fa rendere conto da quanto tempo non cambi lavoro. Qui mi sento in pace, tra Pino e il suo caffè, e il continuo via vai di uomini e donne in carriera a cui si alternano giovani studenti che scambiano il bar per una biblioteca e io, modestamente, ero una di quelli.
Ordino la mia solita insalata: pollo, scaglie di grana, robiola e pomodorini. Niente di più triste, ma del resto devo assecondare la giusta dose di positività giornaliera.
Dopo aver più o meno gustato il mio pranzo tra una chiacchiera e l’altra col “vicino di banco”, decido che è il momento di tornare nel mio luminoso ufficio dai miei splendidi colleghi, sicuramente rincuorati nel vedermi tornare sana e salva tra le nostre mura.
Così, senza alcuna esitazione, esco diretta verso la mia ambita destinazione affrettandomi a passo svelto a raggiungere l’obbiettivo dell’ultima metà della giornata quando, infilando le chiavi nel portone d’ingresso d’improvviso mi assale un dubbio amletico di non poco conto: ho pagato il pranzo?
Chiamo immediatamente la mia amica avvocata.. chissà cosa ne pensa della mia malsana idea di non tornare da Pino e lasciare che il mio pranzo rimanga una gratuita concessione.