È venerdì mattina e sono in piedi in fondo all’aula N da circa un’ora e mezza. Le attese qui dentro sono sempre infinite quindi tanto vale star qui e gustarsi le simpatiche vicende della giustizia italiana. Le mancate ore di sonno delle ultime due settimane si fanno sentire, ma resisto in nome dello sforzo che richiede trovare un sostituto processuale.
La toga che indosso mi cade da una parte all’altra e la spalla destra è sempre quella che ne risente di più, una povera vittima delle cordoniere argentate che si incastrano nelle maniche esageratamente larghe del vestiario forense. In realtà mi piace dover indossare la toga, ricopre me e i miei colleghi di quell’aria di riverenza che ormai gli avvocati hanno perduto tanto tempo fa, quando giurisprudenza è diventata una facoltà per tutti; solo in questo modo la professione continua ad essere d’élite, del tipo “se non hai la toga non vali granché”.
Ci sono tre imputati nella gabbia, due riesco a vederli chiaramente mentre il terzo, forse per la sua statura minuta o per la visuale delle sbarre che gli coprono il viso, non riesco ad individuarlo.
“Facciamo salire lui” ordina il giudice al cancelliere indicando il nome presente sulla copertina del faldone “G”.
Ottimo - penso - altro tempo ad attendere che la polizia penitenziaria faccia salire l’imputato dalle camere di sicurezza presenti nei sotterranei del tribunale, come se due ore di ritardo non fossero già abbastanza.
La porta si apre e una sfilza di poliziotti scorta l’imputato che, in un simpatico trambusto, inciampa nella mia toga suscitando le risatine imbarazzate del pubblico. I nostri sguardi si incrociano per poco, giusto il tempo di scusarmi e ritrarre a me la stoffa in accesso, ovviamente a discapito della povera spalla destra.
“Prego si accomodi al bancone”.
L’invito del giudice lo rende visibilmente agitato ma esegue quanto richiesto senza opporsi.
“L’avvocato è presente?” Nessuno si muove e neppure fiata. Qualche secondo ancora di silenzio e l’iniziativa dell’imputato rompe la quiete in aula.
“Vorrei nominare lei come mio difensore”.
Il suo dito punta verso di me. Mi giro per accertarmi non ci sia nessuno dietro, sia mai di rubare il cliente a qualche collega accanito.
Invece no, stava indicando proprio me.
Così, con un’incerta decisione mi avvicino al banco del Giudice, domandandogli di poter almeno visionare il fascicolo.
Appena sollevata la copertina azzurra il primo atto mi è subito utile, si tratta della citazione a giudizio, ossia il motivo per cui l’uomo è processato. Scorro di fretta le formalità iniziali dell’atto e arrivo finalmente al punto: “imputato per il reato di violenza sessuale ai sensi dell’art 609-bis c.p.“
Un altro periodo insonne, pensai tra me e me.